Desidero aprire un serio dibattito sulla organizzazione dell’assistenza psichiatrica del nostro territorio, con lo scopo di evidenziare le criticità e ipotizzare le possibili soluzioni. Attualmente infatti si tende a fornire un supporto quasi esclusivamente basato sulla terapia farmacologica. Con la motivazione dei “livelli essenziali di assistenza” la preziosa risorsa del farmaco diventa l’unico rimedio effettivamente fornito e vengono praticamente annullate tutte le iniziative, tra l’altro a costo zero, che i tanti professionisti della struttura pubblica sarebbero in grado di fornire, se non venissero messe in atto limitazioni alla loro operatività. In realtà, la vera motivazione di questo approccio sembrerebbe essere un pregiudizio culturale dove la paura di possibili responsabilità nel condurre i processi di cura nei tanti modi possibili riduce il consenso a procedere, e di conseguenza sembra prevalere la filosofia della medicina difensiva. La visione eccessivamente medicalizzata dei nostri servizi sembra quindi la conseguenza del timore di sbagliare, in quanto, per lo stesso pregiudizio culturale, prescrivere un farmaco sembra essere sempre un intervento ben fatto a prescindere, anche se la cura è inefficace e anche se si verificano pesanti effetti collaterali.

La scienza ha fatto quel che poteva, il paziente sta male ma la cura è giusta e va continuata, bisogna aspettare. In questo modo, ovviamente, si riduce il ventaglio delle alternative di cura al mero intervento farmacologico, senza integrarlo adeguatamente con tutte le risorse alternative possibili che scienza e gli approcci umanistici ci mettono, attualmente, a disposizione. Se la persona continua a stare male, unico rimedio è aumentare i dosaggi o il numero dei farmaci prescritti. In questo modo i vantaggi derivanti dalla terapia farmacologica ad un certo punto superano così il loro “picco massimo di efficacia” per entrare in un peggioramento graduale della qualità della vita. Coloro che non si ritrovano in questa visione riduttiva e disumanizzante, si allontanano e perdono la possibilità di usufruire del servizio pubblico, con gravi conseguenze per il loro equilibrio. Gli inevitabili scompensi clinici che seguono, vengono a quel punto trattati con il ricovero, se necessario eseguito in modo forzato (TSO). Anche nel contesto ospedaliero mancano le risorse per un processo di cura integrato, che possa fornire un’autentica possibilità di innescare un processo virtuoso di crescita personale. La comprensibile scarsa aderenza a questo tipo di approccio disumanizzante determina una vera e propria “carriera psichiatrica indotta” ovvero educa le persone che, loro malgrado, si sono ritrovate, nel corso della loro difficile esistenza, ad entrare in una profonda crisi personale, verso uno stile di vita che sicuramente non era quello per cui sono nate e che hanno desiderato vivere. La mia non è una accusa, il mio intento è quello di denunciare la situazione in cui versa l’assistenza psichiatrica del nostro territorio.

Da troppi anni si sviliscono tutte le iniziative che i tanti operatori preparati sarebbero in grado di organizzare se fosse loro concesso. Nonostante sia previsto che ai dirigenti medici e psicologi sia assegnato un incarico specifico di responsabilità in un determinato settore, con lo scopo di far fiorire le competenze in attività terapeutiche, questa possibilità continua ad essere trascurata e negata. È probabile che il “prendersi cura della persona” non sia visto come un elemento fondamentale del processo di cura, come se dovessimo curare una malattia e non la persona che soffre di una malattia.

Eppure la scienza ha fatto negli ultimi decenni dei passi da gigante nelle conoscenze del funzionamento biologico e psicologico, riuscendo a trovare, per esempio, le correlazioni tra mente biologica, struttura psicologica, apparato endocrino, apparato immunitario. Anche i percorsi psicoterapeutici individuali e di gruppo oggi possibili, sono talmente vari e diversificati, che limitare l’intervento ad un unico approccio autorizzato, taglia fuori dalla possibilità di assistenza tutti coloro che, inevitabilmente, non si ritrovano in quell’approccio. Perché, in realtà, persone diverse hanno bisogno di percorsi diversi. Il mio auspicio quindi è che si dia avvio ad un nuovo corso della assistenza psichiatrica nella struttura pubblica, che sia ricco e diversificato, affinché la crisi diventi effettivamente una opportunità per crescere e non sia l’inizio di un declino inesorabile del valore profondo della nostra unica vita.